Messo in scena per la prima volta nel novembre del 1967 a New York, Line è una delle più longeve produzioni Off Broadway, tuttora in scena nei teatri di New York.
Dopo averlo visto proprio a New York è stato Walter Le Moli a portare questo testo in Italia per la prima volta, commissionandone una traduzione e poi realizzandone a Teatro Due una prima messa in scena nel 1986.
Line è un testo sulla competitività. I personaggi della vicenda non devono essere i più bravi, i più efficienti, i più qualificati, devono solo essere i primi. Come è nata l’idea di questo testo? È stato ispirato da un episodio particolare o da un momento della sua vita…
Samuel Beckett diceva che un drammaturgo che spiega la sua opera è come un “escargot qui explique sa cocquille”, come una lumaca che spiega la sua conchiglia… La verità è che non so dire esattamente da cosa sia nato Line. Posso dire che in tutta la mia vita sono stato un corridore, ho fatto molte gare e maratone: lì c’era sempre una linea da varcare e una grande competizione.
Inoltre vivo in America, un luogo in cui la rivalità è parte integrante della vita di tutti, così ho voluto scrivere un testo su questo tema. Volevo però che fosse anche divertente e astratto, per assicurarmi che tutti potessero identificarsi. La volontà di essere primi infatti non è un problema americano, ma umano (e non a caso in alcuni paesi la traduzione del titolo Line suona come Le premier o El primero).
Line è stato messo in scena per la prima volta nel novembre del 1967 a New York, al leggendario Cafe La Mama di Ellen Stewart, una donna incredibile. Il Cafè La Mama in quel periodo era il più famoso teatro Off Broadway, attento al lavoro di nuovi autori, attori e registi, sempre pieno di giornalisti e critici. Ellen fra l’altro ha dato vita alla Fondazione La Mama a Spoleto e fu grazie a lei che venni in Italia per la prima volta.
Ha sostenuto con passione e lanciato gran parte degli attori della scena teatrale e cinematografica del novecento e non per niente era chiamata La Mama, come il suo cafè teatro, laboratorio di sperimentazioni.
Aveva deciso di programmare Line per una settimana, offrendomi un budget di 80 dollari (per fortuna in Line a parte i 5 attori, c’è solo una scena nuda e una striscia adesiva per terra…). Il giorno della prova generale, l’attore che doveva interpretare Steven, il personaggio principale, ci ha detto che voleva abbandonare lo spettacolo per andare a girare uno show televisivo in California. Lo spettacolo avrebbe debuttato il giorno dopo, così il regista James Hammerstein mi ha convinto a recitare. Restammo in teatro tutta la notte e tutto il giorno dopo fino all’ora del debutto perché dovevo imparare a memoria le battute del mio testo. Il mio carissimo amico John Cazale, venuto a New York insieme a me a cercar fortuna dalla stessa città del Massachussetts, (noto per lo strepitoso personaggio di Fredo Corleone de Il Padrino) interpretava Dolan. Quand’ero piccolo in Massachussetts nessuno mi chiamava Israel, ma usavano tutti il mio secondo nome Arthur, abbreviato in Arty. Ebbene dopo 45 minuti di spettacolo andato bene, nel momento in cui io mi avvicino a Dolan per chiedergli di uccidermi come da copione, lui, molto calmo, mi disse “stai andando benissimo Arty”. Quando l’ho sentito chiamarmi così, sono andato completamente nel pallone: non sapevo più chi e dove ero…! Il giorno dopo ho ricevuto una telefonata da Al Pacino: Hello? ho detto. E dall’altra parte ho sentito: You, son of a bitch!.. La prima pagina del giornale infatti titolava: Benvenuto, Mr Horovitz! Era la mia prima recensione, nessuno di noi ne aveva ancora avuta una…
La fine della storia è che io, Al Pacino e John Cazale abbiamo chiuso il cerchio mettendo in scena il mio testo L’indiano vuole il Bronx, per il quale io ho vinto il premio come miglior opera, Al Pacino come miglior attore e John Cazale come distinguished actor (che vinse anche per Line). Quando Line fu ripreso quello che fu il mio ruolo, Steven, venne dato a Richard Dreyfuss.”
Dopo quell’anno ci furono moltissime riprese di Line e dal 1975 è ancora in scena nei teatri di New York. Qual è il segreto della longevità di questo testo?
Se lo sapessi, onestamente, lo rifarei…! Indubbiamente credo che dipenda anche dal fatto che su tratta di un testo serio, ma divertente e sexy. E non è costoso da produrre…
In Line quattro uomini e una donna lottano per il primo posto di una fila. Una fila senza capo né coda, né tantomeno scopo, in cui tutti sono disposti a tutto pur di essere i primi, perché la competizione finisce per essere l’unica occasione di esistere. Cosa rappresentano? Qual è il ruolo di Molly, la donna?
Ho scritto questo testo nel ‘66, quindi è difficile spiegare certe cose. I personaggi rappresentano assolutamente gente normale: Fleming è di estrazione operaia, non troppo intelligente, non troppo educato, probabilmente è stato un militare ed è un buon soldato, guarda il calcio in tv e va tutte le sere al bar; Dolan è il classico venditore di automobili; Steven è un artistoide saturnino, Arnall è più colto, un piccolo borghese, forse insegna in un liceo, conosce Mozart, la Messa da requiem, ed è il marito di Molly, donna ambiziosa, con la quale forma una strana coppia. Per Molly essere il numero uno è addirittura più importante che per tutti gli altri, perché lei ha qualcosa da provare come donna in un mondo di uomini, non è una prostituta, è una figura più complessa. Forse ama suo marito, che però è un uomo incapace di arrivare al primo posto, per questo forse fa tutto per lui, lei è il capo. È interessare parlare di Molly perché il modo in cui vedevo le donne nel 1967 non è lo stesso in cui le vedo ora. Io non ho più cambiato il testo, che ormai è scritto, ma il testo sopravvive perché le attrici danno ogni volta qualcosa di contemporaneo al personaggio di Molly.
A un cero punto Steven vuole che gli altri lo uccidano per morire giovane come il suo idolo Mozart; ma gli altri si rifiutano. Perché? In fondo si tratterebbe di un concorrente in meno…
Ucciderlo sarebbe oltre il limite; gareggiare scorrettamente, tradire, significa infrangere le leggi dell’uomo. Ma uccidere significherebbe infrangere le leggi di Dio. Il testo è permeato di religione ed è per questa che ho scelto il Requiem di Mozart, perché è intriso di un senso profondamente religioso. Quelle persone sono lì per competere, non sanno perché ci sia una linea, ma devono essere i primi. È il modo perfetto per parlare di competizione. Alla fine del testo è l’artista, Steven, a comprendere la profondissima mancanza di senso in quella competizione, quando vede che tutti hanno un pezzo di linea, prende il suo e lo getta al pubblico lasciando la gara e la scena.
Dunque è l’artista a darci la chiave per comprendere, quell’artista che per lo spettatore può essere identificato con l’autore…Del resto in Line è evidente la simpatia, la comprensione di chi scrive verso i suoi personaggi…
Dichiarare l’identificazione con Steven, sarebbe forse presuntuoso. Lascio giudicare a chi guarda. Certamente io amo i personaggi che ho creato. Il testo sembra semplice, ma è costruito molto attentamente con la precisa volontà che lo spettatore si immedesimi in quei cinque e si stupisca sentendosi spaventato, eccitato come loro. Forse è proprio per questo motivo che Line funziona da cosi tanto tempo e in così tanti paesi diversi, perché alla fine lo spettatore si interroga seriamente sul senso della competizione e sul senso della vita…
Line dunque è anche una riflessione sulla leadership, come conquistarla, mantenerla..
Non ne sono sicuro…Line è un testo sulla competitività. Essere il numero uno non significa necessariamente guidare altre persone, essere in grado di farlo. La domanda è cosa c’è in palio, cosa si vince. Il mio piccolo testo non offre una precisa risposta, spero instilli la domanda in chi guarda.
Essere fuori dalla fila, fuori dalla competizione, significa essere fuori dalla vita?
Forse significa essere nel centro della vita, mentre essere in competizione continua ci porta fuori. Tutti conosciamo persone che lavorano giorno e notte, se chiediamo loro il perché ci risponderanno che lo fanno per dare da mangiare ai loro figli, anche se non li vedono mai… E non solo per essere primi, ma per avere di più, più soldi, una macchina più bella, più potere…ecco il paradosso! Le persone che sono costantemente in gara forse non stanno veramente vivendo la loro vita. Io ho sempre pensato che fosse più importante divertirsi giocando, che impazzire per vincere.