Se fossimo in un laboratorio di chimica, all’inizio di questo esperimento ci sarebbe da subito un fatto chiaro: mettere insieme tanti elementi reagenti può essere pericoloso. Il rischio è quello di esplosioni, corrosioni, decadimento molecolare. Sull’altro piatto della bilancia c’è invece la possibilità di creare un composto potentissimo, versatile, innovativo. Alta la posta, alto il rischio, insomma.
Quello che Fondazione Teatro Due ha messo in atto negli ultimi sette mesi con il Corso di Alta Formazione Casa Degli Artisti 2016 è però ben più di un esperimento, ben più di una prova. Attori, drammaturghi, musicisti e registi sono stati messi nello stesso luogo, hanno percorso la stessa strada, hanno avuto la possibilità di lavorare insieme, di reagire insieme, di mescolarsi e di vedere cosa succedeva. Il percorso che gli allievi hanno affrontato e nel quale sono stati guidati da numerosi maestri è un viaggio all’interno del mestiere del teatro, ma anche una riflessione su come tanti talenti, tante teste pensanti, tanti uomini e donne possono lavorare per fare teatro. E fare teatro non è solo fare arte: è anche rifuggire la semplificazione, essere altro da sé, scoprirsi parte di un possibile più grande.
Di reazioni chimiche ne sono successe tante. All’interno di ognuno degli attori, e nelle loro combinazioni. Reazioni corporee, fisiche, vocali, performative, intellettuali.
Ad esempio quella che si è scatenata nel percorso che ha portato alla messa in scena di The Beggar’s Opera di John Gay. Obiettivi: scrittura di pezzi cantati originali, composizione di cori vocali armonizzati, ricerca sui personaggi, recitazione, coreografia, performance. Mentre i drammaturghi lavoravano sul testo di Gay e componevano versi per le arie (che sono state totalmente riscritte in forma originale), il Maestro Bruno De Franceschi lavorava con gli attori sulle tecniche vocali e di canto, fino a creare un ensemble di voci capaci di esprimersi sia da soliste che, soprattutto, in coro. Un lavoro difficile, a tratti tortuoso, ma che ha portato i suoi risultati: la potenza di sedici voci cantanti, in quattro diverse voci, su tessiture musicali tutt’altro che semplici, ha mostrato tutta la sua forza nell’esito finale della messa in scena di The Beggar’s Opera, curata da De Franceschi e Caterina Vianello. Una messa in scena, anche in questo caso, che ha mescolato il canto e la recitazione in una forma del tutto insolita per il panorama italiano: un testo che è cólto come un’opera lirica e vivace come un musical, e che prevede la recitazione serrata e spesso sopra le righe mescolata ai pezzi di bravura musicale non si vede spesso.
A fine spettacolo il pubblico numerosissimo, divertito e commosso, ha applaudito fragorosamente.
Ad esempio la reazione che si è creata quando Monica Nappo Kelly ha lavorato con tutto l’insieme degli attori su alcuni testi della recente drammaturgia anglosassone. Testi giovani nello stile e nei temi, di graffiante attualità ma anche contenenti numerosi corti circuiti. Anche qui si è rischiato forte: la diversa materia prima (quattro testi scritti negli ultimi dieci anni da tre autori diversi), l’idea di una lettura per il pubblico, il poco tempo a disposizione potevano essere un ostacolo. E invece sono stati lo stimolo per indagare un mondo che fa del testo la sua colonna portante, e che mette l’attore al centro del palco con nient’altro che se stesso e le sue parole. Un mondo con cui ogni attore e ogni autore deve, oggi, fare i conti. A detonare la reazione la voglia di non adagiarsi, di sentirsi all’interno di un territorio che non è polvere e inchiostro ma vita e mutazione, e che può dare linfa a una generazione che oggi scrive, oggi agisce, e fa teatro.
Alcune reazioni chimiche si ottengono attraverso meccanismi fisici. E, sulle assi nere di un teatro, è il corpo il primo simbolo e il primo centro nevralgico di qualsiasi reazione. Il corpo umano crea calore. Nei corsi tenuti da Jeffrey Crockett con Massimiliano Farau e da Michela Lucenti gli allievi hanno dovuto sudare, hanno dovuto combattere con le loro predisposizioni, si sono scontrati con un elemento, il corpo, che è allo stesso tempo contenitore e veicolo, oggetto e soggetto. E siccome ciò che crea calore crea anche suono, molti sono stati i suoni che si sono sentiti in teatro durante questi corsi. I più evidenti erano gli urti col pavimento (ma si sa, cadere serve sempre), mentre sotto la pelle erano molto più forti le scosse elettriche. Il risultato di queste esplorazioni va molto oltre lo spettacolo #Sonnetsdance121, che ha debuttato nella Maratona Shakespeare al Teatro Due con enorme successo ed è stato rappresentato anche al Teatro della Tosse a Genova. Il risultato è un innalzamento della temperatura e della capacità elettrica di un insieme di corpi che comunicano vita, e quindi comunicano teatro.
Il teatro non ha memoria, o almeno questo è quello che si dice. Ma il lavoro sulla memoria è un lavoro tutt’altro che desueto: è sentire come risuona un essere umano se suonato con le corde della Storia. Durante il periodo passato sotto la supervisione di Elisabetta Pozzi, nel quale si è indagato uno dei testi più insoliti e complessi di Euripide, Alcesti, ci si è posti molte domande sul teatro, sulla valenza di un testo apparentemente molto lontano dalla contemporaneità, su quale sia il modo migliore di farsi attraversare da un materiale tanto imponente e tanto enigmatico. La soluzione? Usare tutti i mezzi possibili. I drammaturghi hanno creato delle cellule totalmente nuove da inserire negli squarci del testo, i musicisti hanno composto musica originale, gli attori hanno affrontato un materiale testuale insolito senza paura e senza citazionismo, e si è arrivati a una riflessione che rende Alcesti attualissimo: quella sulla morte, sul rapporto tra i vivi che rimangono dopo un lutto, sulla necessità. Il tutto approdando a un testo che non tradisce l’originale ma che dà una lettura nuova, inedita, potentissima. Il pubblico lo ha confermato emozionandosi, scaldandosi, applaudendo forte.
Ad ogni esperimento, si sa, va fatto precedere un momento di studio. Nel Corso si è fatto anche questo. Con Luca Fontana, Nicola Arrigoni, Susanne Franco, Enrico Groppali, Gloria Bianchino e Claudio Coloretti si è esplorato il luogo teatrale in tutte le sue forme, nei suoi spazi fisici e mentali, spesso nei suoi anfratti più nascosti. Il gradiente di consapevolezza di se stessi come professionisti e come persone di cultura (perché questo si è, se si fa cultura) è stato coltivato e arricchito, non lasciando indietro niente di quello che precede l’azione e la creazione.
Andando al sodo, quali i risultati di questo esperimento? Che cosa è successo durante questo percorso, un percorso complesso, a volte fulmineo a volte interminabile, e cosa se ne è ricavato? Dare una risposta immediata a questo quesito sarebbe peccare di hybris, essere frettolosi e poco attenti. Quello che è certo è che in ognuno degli allievi qualcosa è cambiato, alcune cellule si sono attivate e altre si sono potenziate, non rispetto a una precedente mancanza ma in funzione di una presenza più forte all’interno di un sistema. La sensazione è quella che sia stata raggiunta la massa critica, il punto di fusione attraverso il quale ciò che viene immagazzinato comincia a produrre energia, un’energia diversa e nuova, che esisteva già in potenza ma che viene scatenata. Casa degli Artisti è un luogo vario, eclettico, strutturato, in cui ogni percorso ha contribuito a crescere verso una direzione ben precisa: quella di un teatro consapevole di se stesso ma mai compiaciuto, giovane e brillante ma mai scontato. Quella di creare un teatro che non c’era, e che crea nuovi possibili ad ogni passo.
Francesco Bianchi
Allievo drammaturgo del Corso di Alta Formazione Casa degli Artisti 2016