Demmo un’occhiata nell’originale, ma non trovammo nessuna indicazione, se non si tiene conto di alcune parole sulla cravatta di seta che portava lo zio Vanja.
– Ma ecco, ecco! È tutto scritto, – cercava di persuaderci Cechov.
– Che cosa è scritto? – noi non capivamo. – La cravatta di seta?
– Ma certamente, sentite: ha una meravigliosa cravatta, è un uomo elegante, colto. Non è affatto vero che i nostri proprietari di campagna portano stivali ingrassati. È gente educata, si veste bene, a Parigi. Ma io ho scritto tutto.
Questo accenno insignificante rifletteva, secondo l’opinione di Anton Pavlovic, tutto il dramma, il dramma della vita contemporanea russa: un professore privo di talento, non utile a nessuno, è felice; egli gode immeritatamente fama di studioso celebre, è diventato l’idolo di Pietroburgo, scrive insulsi libri dotti, di cui si diletta la vecchia Vojnickaja.
Konstantin S. Stanislavskij
È durata più di un anno l’avventura che ha portato alla creazione di Zio Vanja di Cechov diretto dal regista tedesco Peter Stein. Un’immersione totale opposta al metodo routinier di tanta prosa italiana in cui, sotto la doppia bandiera produttiva del Teatro Stabile di Parma e del Teatro di Roma, allora diretto da Luca Ronconi, Stein ha condotto un cast composto da Lino Troisi, Renzo Giovampietro, Maddalena Crippa, Elisabetta Pozzi, Tania Rocchetta, Roberto Herlitzka, Remo Girone, Michele De Marchi, Bianca Sollazzo, Giovanni Fochi. Un tuffo in un pensiero forte del teatro, fondato in quella fede nel lavoro d’équipe che è uno dei credo irriducibili di Stein, teorico del “collettivo”, già fondatore e guida della leggendaria Schaubüne berlinese, apolide del teatro. Zio Vanja ha debuttato in anteprima il 2 aprile 1996 a Mosca nello storico teatro d’Arte, ospite del II Festival Internazionale del Teatro Cechoviano, primo spettacolo italiano invitato a questa prestigiosa manifestazione. Poi è stato rappresentato a Roma e a Parma. È stato un progetto molto particolare, forte di un ensemble preparato, curioso e disponibile, interessato a un’operazione non condizionata dalla fretta produttiva. Un lavoro molto lungo inimmaginabile oggi: lo studio attento ed accurato del testo, la visione di varie versioni in video, da Brook a Strehler. L’approccio a tutto Cechov, i suoi racconti, le sue lettere, le versioni televisive russe di racconti e pezzi teatrali, tutti i film compreso lo Zjo Vania newyorkchese di Malle. E infine un viaggio degli attori in Russia, un seminario-pellegrinaggio sui luoghi Cechov.
Per me era necessario che gli attori facessero questa esperienza. Cechov è forse il più europeo degli scrittori russi, ma la Russia è il tema dei suoi lavori. E occorreva capire bene cosa vogliono dire certe condizioni di vita, le distanze enormi, quei paesaggi. Attraversare l’Italia in treno è tutt’altra cosa che viaggiare attraverso la Russia, dove per chilometri e chilometri il panorama è sempre lo stesso. Dove viaggiare diventa un sogno, un’occasione per riflettere su se stessi e giungere a conclusioni inevitabilmente catastrofiche. Per gli attori italiani frequentare luoghi dov’è passato o si rappresentava Cechov è stata un’esperienza fondamentale. Un risultato a prescindere dall’esito del nostro spettacolo.
Peter Stein