TRAGÙDIA

il canto di Edipo

di Alessandro Serra
liberamente ispirato alle opere di Sofocle

SPAZIO GRANDE
8 e 9 febbraio

con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino

regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra

traduzione in lingua grecanica Salvino Nucera
voci e canti Bruno de Franceschi
collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
collaborazione al suono Gup Alcaro
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai costumi Serena Trevisi Marceddu

direzione tecnica e tecnica del suono Giorgia Mascia
direzione di scena Luca Berettoni
costruzione scena Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin

co-produzione Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due
in collaborazione con Compagnia Teatropersona, I Teatri di Reggio Emilia

Macerie.
In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco.
Ciò che resta della tragedia:
parole senza suono.
Ciò che resta della polis:
una società di estranei. Ciò che resta del rito:
una drammaturgia spenta. Ciò che resta di un mito:
una storiella venuta a noia. Ciò che resta di un eroe:
un personaggio fuori fuoco.
Il canto di Edipo si edifica sulle macerie.

Scrive Antifane nella commedia Poiesis: La tragedia è un’arte fortunata, perché gli spettatori conoscono l’intreccio già prima che il poeta lo racconti, basta ricordarglielo. Appena pronunziato il nome di «Edipo», già si sa tutto il resto – il padre Laio, la madre Giocasta, le figlie, i figli, che cosa ha sofferto, la sua colpa.

Come ricostruire oggi quel sapere collettivo che esonerava il poeta tragico dal dover volgere in prosa il mito e lo legittimava a sollecitare immediate visioni nel pubblico?
Come compiere il tragico oggi?
Quale linguaggio è, ciò che tramite Sofocle, vogliamo dire allo spettatore? E in quale lingua?
Il greco di Sofocle era volutamente alto e musicale, una lingua che ci strappa dal piano di realtà e ci pone su un livello di trascendenza.
Come consegnare al pubblico la drammatizzazione perfetta del mito perfetto in una lingua non ostile e concettuale ma musicale, istintiva e sensuale?
L’italiano sembra abbassare il tragico a un fatto drammatico.
Abbiamo perciò scelto il grecanico, lingua che ancora oggi risuona in un angolo remoto di quella che fu la Magna Grecia, una striscia di terra che dal mare si arrampica sull’Aspromonte scrutando all’orizzonte l’Etna.
Vestigia sonore di un antico greco oggi parlato da pochi individui figli di una generazione che aveva vergogna della lingua di Omero e ha smesso di insegnarla ai figli, per concedersi la speranza di un futuro migliore, in una società in cui la lingua dei poeti è stata scalzata da quella della televisione.
Un idioma antichissimo sporcato da lingue piovute dall’alto e da dialetti subalterni cresciuti spontanei nel campo sublime seminato dai greci come il calabro e il pugliese.
La tragedia di Edipo è ambientata in una città ridotta al lumicino, arida, sterile, in decomposizione. Eppure Sofocle guida lo spettatore verso una luce interiore che si manifesterà a Colono, nel bosco sacro in cui Edipo verrà letteralmente assorbito dagli dei.

La tragedia perfetta della quale Aristotele si serve costantemente come modello ideale nel corso della sua trattazione teorica.
Tragedia freudiana per antonomasia. Archetipo stesso di qualsiasi tragedia.