Dal 29 novembre al 4 dicembre torna a Teatro Due Max Gericke, per la regia di Walter Le Moli e protagonista Elisabetta Pozzi. Rappresentato in Italia per la prima volta nel 1984 in occasione di Teatro Festival Parma con l’interpretazione di Lore Brunner, il monologo di Manfred Karge è stato poi riallestito da Walter Le Moli nel 1990 con Elisabetta Pozzi, in una produzione di Teatro Due – ripresa in un’unica replica durante la Stagione 2014/2015 – che ha sconvolto e affascinato il pubblico per i suoi molteplici livelli di lettura quali il tema del doppio, i rapporti uomo-donna, l’identità negata, la violenza che permea i rapporti sociali.
Riportiamo qui alcuni frammenti tratti dalla rassegna stampa
C’è un gran valore aggiunto umano nel ritorno di Elisabetta Pozzi ai panni maschili d’un pensionato che in Max Gericke di Manfred Karge rievoca il suo ermafroditismo. Noi che già quasi vent’anni fa la vedemmo in questo ruolo sovvertito per sesso ed età, sempre con regia di Walter Le Moli, ne riscontriamo oggi (emozionati) la più dolente maturità di voce e d’aspetto. Memorabile il brusco passaggio d’identità da un creatura abituata a “schnaps” e stinco di porco consumati nelle osterie, al recupero di indumenti femminili. Grandiosa la maschera tragica di una Winnie negata, alla deriva sui tacchi alti.
Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica (2009)
Elisabetta Pozzi resa vecchia e irriconoscibile da un trucco, affronta con bel temperamento il non facile personaggio offrendone un’ottima, inquietante interpretazione tesa a fondere i diversi piani della finzione, vero maschio nell’ingurgitare birra, vera donna nel ricordo di una maternità negata, ma in sostanza una disperata maschera grottesca di dolore e umanità.
Magda Poli, Corriere della Sera
Walter Le Moli, autore della traduzione e della regia, ha confezionato uno spettacolo denso, struggente e non privo di umorismo. Di straordinaria bravura la Pozzi, sia quando è vestita e truccata come l’uomo già anziano che ricorda e rivive la propria straordinaria avventura, sia quando s’illude di poter tornare ad essere donna. Sorprendente nella sua corta parrucca grigia, gli occhi segnati profondamente, le rughe rilevate, la mano pronta ad afferrare il bicchiere o ad accendere la sigaretta, il suo Max ha una tale forza comunicativa e una tale precisione di gesto da suscitare l’ammirazione della platea.
Osvaldo Guerrieri, La Stampa (1998)
Voglio rendere omaggio a una straordinaria attrice, cui certo non sono mancati riconoscimenti per la bellissima carriera: Elisabetta Pozzi. L’ho recentemente rivista in scena al Teatro Due di Parma, per una nuova ripresa del Max Gericke. Per chi si occupa di teatro questo titolo risulterà familiare: è infatti dal 1990 che Elisabetta Pozzi (Betta, semplicemente, per gli amici) fa questo difficilissimo monologo. E dentro un simile, ambiguo, personaggio lei stessa è cresciuta, è cambiata.
Sono interessanti questi spettacoli di lunghissima e straordinaria tenitura: lavori che vanno in scena da venti, venticinque anni. Penso […] alla struggente Istruttoria di Peter Weiss. E Max Gericke si inserisce a pieno titolo in questa particolare categoria di spettacoli eternamente nuovi. […]
Potete immaginare che miracolo di “sospensione di incredulità”: una bella attrice che, con un trucco formidabile, interpreta una donna che si fa uomo e vecchio, pur rimanendo donna.
Grazie all’incredibile talento, e alla regia illuminata e delicata di Walter Le Moli, lo spettacolo continua a essere pregnante, di vibrante intensità e tensione. […]
Lei, la signora attrice, ha ormai raggiunto uno stato di grazia: basta cogliere quel suo modo di sbattere gli occhi, di inclinare un poco il volto, di muovere le mani, per ripensarla come straordinaria interprete di lavori indimenticati. […]
Elisabetta Pozzi, si diceva, è bravissima: può fare un assolo semplicemente muovendo la mano, aprendo una birra, cambiandosi le scarpe mostrando fatica e intenzione. Fa di questo personaggio un coacervo, un precipitato di umanità, di rancore, di astio, di nostalgie: poi, come sopraffatto dalla propria esistenza, semplicemente resta, a mostrarsi, per quel che non è stato.
Andrea Porcheddu, Gli Stati Generali