Sulla copertina di “Sette”, il settimanale di approfondimento del Corriere della Sera uscito venerdì 7 aprile 2017, campeggia Persepoli, l’opera di Luca Pignatelli che è stata censurata nella più importante mostra d’antiquariato del mondo, a Maastricht. Il motivo addotto è che potrebbe turbare la sensibilità dei musulmani, visto che raffigura una testa umana su un tappeto orientale. Questo perché la religione islamica non ammette la rappresentazione delle figure umane, e vedere una testa umana (Testa femminile, 2016) impressa su un tappeto di foggia araba è stato ritenuto pericoloso dalla censura.
Fondazione Teatro Due vanta una lunga collaborazione con Luca Pignatelli, visto che l’artista ha collaborato con Teatro Due per l’allestimento dello spazio scenico del progetto Ghiannis Ritsos – Quarta Dimensione con le sue opere San Lorenzo, Lotta, Pompei, La Battaglia di Lepanto e poi, per la produzione de Il Malato Immaginario, con Testa Femminile, che altro non è che un’opera della stessa serie di Persepoli. La riflessione che può generarsi è la seguente: proprio in questo sta la comunanza tra l’operazione di Pignatelli, che raffigura un immaginario occidentale insieme a uno più caratteristico del mondo islamico, il più discusso negli ultimi anni, e l’indagine che Walter Le Moli attua accostando e facendo dialogare le opere dell’artista contemporaneo con dei testi e dei temi classici, come il mito greco e il capolavoro di Moliére. È una comunanza nell’indagare la linea di confine, il crinale tra diverse arti e diversi universi, attraverso la dialettica a volte anche non immediata che si crea tra due materiali in apparenza distanti. Come un tappeto e una figura dell’antichità classica, o Argan e l’arte contemporanea. La sensazione che ne scaturisce, e che di fatto connette queste due esperienze, è quella che in questa relazione si vede che l’arte (ma non siamo di certo i primi a dirlo) ha il compito di costruire dei ponti, di abbattere dei muri, anche correndo il rischio di far storcere qualche canonicissimo naso. Anche perché i nasi, specialmente quelli religiosi, si storcono facilmente e sono molto sensibili sui temi della censura: “C’è questa tendenza [in chi censura, ndr] a erigere muri tra le espressioni artistiche, quando si sa che un’arte ha sempre preso dall’altra” dice Pignatelli nell’articolo di “Sette”. La figura umana spaventa, imbarazza, in un momento come questo in cui le tensioni fra i due mondi (occidentale e islamico) sono al loro massimo storico. Tuttavia, posto che non c’è nessun intento offensivo nel far dialogare due mondi differenti né tantomeno nel rappresentare l’iconoclastia e la rappresentazione nella stessa opera, rimane che la bellezza e l’arte non devono farsi spaventare da chi vede nell’atto di censurare l’unico modo per proteggere un frangente delicato. In questo senso è anche bene sottolineare la differenza che passa tra la decisione della commissione del Tefaf, la quale ha deciso di non esporre Persepoli, e la scelta registica di chi ha invece usato le opere di Pignatelli proprio per gettare un ponte tra arti figurative e performative, tra pittura e teatro, tra antico e moderno. Senza nessuna paura, senza temere l’offesa o il vilipendio. È per altro che si offende, chi fa cultura. Non per un tentativo di indagare una zona di confine che è difficile tanto quanto è interessante, e non dovrebbe essere mai censurata. Anzi, proprio per aprire uno spiraglio, uno squarcio, una lama di luce. Anche perché, come dice sempre Pignatelli, “la contaminazione è sempre un baratto di idee”; e noi siamo d’accordo.