Mezz’ore d’autore – le interviste
Fausto Paravidino

Il progetto Mezz’ore d’autore si propone come scintilla per innescare una riflessione sulla drammaturgia contemporanea. La messa in scena dei testi selezionati è accompagnata da approfondimenti, interviste, dibattiti aperti al pubblico incentrati sulle inquietudini della scrittura per il teatro, sulle possibilità offerte dal panorama politico e culturale di vari paesi nel mondo, sulla scelta delle tematiche da affrontare e sui linguaggi più efficaci oggi per veicolare significati attraverso un medium che è fra i più antichi della storia umana. Abbiamo formulato alcuni nuclei tematici e li abbiamo sottoposti all’attenzione di quattro autori teatrali, per condividere insieme a loro i cardini salienti delle riflessioni in atto, con l’intenzione di contribuire a disegnare una mappa della nuova drammaturgia in Europa e nel mondo.

Qual è lo stato dell’arte della nuova drammaturgia oggi?

Ci sono nuovi testi piuttosto belli che fluttuano in un contesto non molto attraente. Pian piano, vecchi e nuovi autori drammatici imparano a scrivere sempre meglio in un contesto di spaventosa libertà artistica perché non c’è un mainstream di riferimento. Raramente e difficilmente hanno il confronto con il pubblico o con messe in scena adeguate ma i testi circolano a livello globale e influenzano la lunga serialità alla quale tutti hanno accesso. Questo favorisce le contaminazioni tra gli autori e la loro crescita anche se in Italia il teatro è molto scalcagnato e il pubblico è tenuto al di fuori di questo giochetto di leggere e scrivere. Evidentemente ha fatto di più per la formazione dei nuovi autori drammatici lo streaming televisivo che il teatro in teatro. Il teatro era luogo principale del dibattito, poi progressivamente è stato scalzato da questo ruolo e si è consolato diventando avanguardia. Ora mi pare che non sia neanche avanguardia. Sarebbe bello che facesse di sfiga virtù cioè diventando uno spazio di libertà espressiva ma in questo momento è un discorso assurdo visto che esiste solo in streaming e quindi in competizione con chi il video lo fa di mestiere.

 

Nel paese in cui lei vive, c’è attenzione alla nuova drammaturgia? Quale politica seguono i teatri?

No, direi che in generale c’è scarsissima attenzione alla nuova drammaturgia. Tutti i teatri o quasi tutti fanno qualcosa e dicono di fare qualcosa per la nuova drammaturgia così come pigramente talvolta la nostra società cerca di fare qualcosa per le femmine, i disabili, gli immigrati o altri paria. Da molti anni si è consolidata, in Italia come in Francia, per esempio, una regola non scritta: i classici in sala grande la nuova drammaturgia in quella piccola dando origine ad una profezia autoavverantesi: la drammaturgia contemporanea vuole pochi attori, poche scene, poco pubblico. Insomma, sostanzialmente direi che la scrittura contemporanea interessa poco al mondo del teatro ed è sconosciuta al pubblico. Quindi comporterebbe un investimento rischioso e perché rischiare per una cosa che poco ci interessa? Nessun teatro italiano, che io sappia ha un comitato di lettura, chi scrive una commedia ha veramente poche possibilità che questa venga letta. Di conseguenza pochissime di vederla in scena. I direttori di teatro di solito dicono che se trovassero un testo veramente bello lo metterebbero in scena e che il problema è che questo testo veramente bello purtroppo non arriva, ma non si può avere Shakespeare senza una pletora di elisabettiani qualsiasi. Il padrone spera di arrivare alla qualità solo attraverso la selezione ma è nei grandi numeri che si nascondono le cose belle. La drammaturgia contemporanea non è un bravo autore che speriamo si manifesti, è tanta gente che scrive per il pubblico.

 

Che ruolo può giocare la nuova drammaturgia nel ridare centralità al Teatro all’interno del dibattito pubblico? 

Secondo me oltre ad essere fondamentale il suo ruolo sarebbe risolutivo perché sposterebbe l’attenzione dello spettatore dal “come” al “cosa”. Un popolo vivo va a vedere una storia che non conosce e si confronta sulla cosa per capire chi è. Nel teatro italiano da un po’ di tempo a questa parte la convocazione riguarda più il come la cosa viene fatta che la cosa che viene fatta. E questo seleziona un pubblico di addetti ai lavori o di critici amatoriali, di amanti più delle note a piè di pagina che del testo soprastante. Conosco queste persone, non le disprezzo affatto, al contrario, abbiamo un buon rapporto, ci lega una tenerezza reciproca e ce la raccontiamo da più di vent’anni ma certo non mi stupisce che non siano una moltitudine.

 

Ha dei modelli drammaturgici di riferimento? 

Sì. Molti.

 

Come costruisce i suoi testi teatrali? 

Dipende. Non ho un metodo, a volte sono storie che derivano da altre storie, allora studio, cerco di capire cosa mi colpisce, dov’è la vita, mi do dei compiti difficili per vedere cosa succede. A volte sviluppo le storie insieme agli attori. Più spesso, nella maggior parte dei casi, vengo visitato da un frammento di ispirazione, scrivo una scena, che è sempre scena 1 e poi vado avanti finché la commedia non finisce.

 

Quando compone un testo, predilige ritagliarlo su uno o più interpreti specifici oppure crea i personaggi al di là degli attori che li interpreteranno?

Di solito scrivo liberamente senza pensare alla produzione e ad eventuali interpreti anche qualora questi già ci siano. I personaggi hanno qualcosa in meno degli esseri umani che li interpreteranno: si occupano di una cosa sola. E hanno qualcosa in più: se ne occupano fino alle estreme conseguenze. Per questo pensare agli interpreti quando si scrive non fa tanto bene né ai personaggi né agli interpreti.

 

La contaminazione tra vari linguaggi, drammaturgia, scrittura cinematografica, televisiva etc…, depaupera il puro teatrale o aumenta il ventaglio delle possibilità?

Con una zappa puoi piantare i pomodori o spaccare la testa di tuo fratello, dipende da chi sei.

 

Di cosa si potrà parlare quando le sale dei teatri riapriranno?

Riapriranno i teatri, se non ora tra un po’. E cosa ci vedremo? Un po’ paradossalmente la chiusura dei teatri dovuta all’epidemia di Covid 19 è diventata una specie di scusa per non guardare al brutto del sistema teatrale. Pare ora che il problema del teatro sia il suo essere chiuso. Ed è vero. Non essere è un problema. Ma l’essere non sono rose e fiori. Il teatro prima di chiudere era in ritardo nel leggere la società. Arrancava. Giocava di retroguardia o si cercava fuori dal teatro. Era professorile e non riusciva a parlare alla società. Cosa succede? Una chiusura forzata. Dove le medie e grandi istituzioni vengono però finanziate. Secondo me sarebbe stata una buona occasione per fermarsi, parlarci, fare ricerca, provare a cominciare ad inventare un teatro più libero dal commercio dato che il suo commercio era vietato. Non mi sembra che sia stato fatto. Nessuno degli artisti che conosco è stato messo in condizione di fare un percorso davvero creativo in questo periodo. Anzi. Che io sappia i miei colleghi sono stati ancora più sfruttati. Si chiede a gran voce la riapertura dei teatri.  Certo. Giustamente. Ma a me fa quasi più paura la loro riapertura che la loro chiusura. Ciò che di buono è successo in teatro negli ultimi anni non è stato costruito dalle grandi istituzioni. È nato in piccole realtà che poi sono state eventualmente sussunte dalle grandi istituzioni. E sono proprio le piccole realtà ad essere state colpite a morte ultimamente. E non so se le grandi istituzioni teatrali si sono assunte un compito di scouting prima per loro inedito. Non so ma non credo. Non penso che il teatro il giorno che riaprirà dovrà parlare dell’epidemia che stiamo vivendo, ovviamente, ma rivedere quel museo dei narcisismi, mio dio, no, ti prego, no.

Il tratto distintivo della crisi che stiamo vivendo è una grave sfiducia nei processi democratici. La crisi finanziaria del 2009 con la sua ombra lunga, il terrorismo islamico, l’epidemia di Covid 19 sono  tutti fenomeni che si presentano con un carattere d’urgenza tale da trovarci belli d’accordo sul fatto che non è certo il momento per perdersi in chiacchiere e opinioni. Serve un “migliore”, uno pratico che decida in fretta e decida lui. La democrazia è una sorta di passatempo per i momenti di ozio. Il teatro non serve a niente (mi riferisco alla sua evidente sacrificabilità), è fuori da ogni impellenza eppure è mantenuto impermeabile ai processi democratici. Una sorta di nostalgia strehleriana dei grandi uomini dell’era dei grandi uomini unita al pregiudizio della soggettività dell’arte fanno sì che la gestione del teatro sia quasi sempre padronale. “Deve decidere uno”. Questo credo che sia sbagliato dal punto di vista gestionale e credo sia anche miope dal punto di vista artistico. Penso che se il teatro volesse provare ad essere avanguardia di qualcosa forse sarebbe simpatico provare a sperimentare il principio costituzionale della diffusione del potere invece di seguire la moda della concentrazione dello stesso, perché la fotografia del teatro italiano ricorda più l’Italia delle signorie che quella nata dalla resistenza. Questo era stato un po’ l’esperimento del Valle Occupato che – a mio avviso – stava dando risultati molto buoni, interessanti e spesso innovativi proprio in virtù dell’apertura dei processi decisionali e creativi.

 

BIO

Fausto Paravidino è attore, autore e regista, di teatro e di cinema. Ha scritto una quindicina di commedie messe in scena da lui stesso e da numerosi altri registi in Italia e all’estero, che hanno vinto numerosi premi. Alcuni titoli: “2 Fratelli”, “Natura Morta in un Fosso”, “La Malattia della Famiglia M”, “Peanuts”, “Genova 01”, “Morbid”, “Exit”, “I Vicini”. Ha lavorato per il Royal Court Theatre di Londra, il National Theatre, la Comèdie Française e, in Italia, in particolare per il Teatro Stabile di Bolzano con una certa continuità. Ha scritto e diretto il film “Texas”, nel 2005, presentato alla mostra del cinema di Venezia. Il suo teatro, edito da Ubulibri, è appena stato ripubblicato da Einaudi in Italia e in Francia da l’Arche. I suoi ultimi lavori sono “Il Macello di Giobbe”, per il Teatro Valle Occupato, “La Ballata di Johnny e Gill”, per il Théâtre Liberté di Toulon assieme ad altri teatri, “Il Senso della Vita di Emma”, per il Teatro Stabile di Bolzano. Ha insegnato recitazione in varie scuole in Francia (tra cui il Conservatorie) e attualmente alla scuola di recitazione del Piccolo Teatro di Milano e del Teatro Stabile di Torino. Ha coordinato i progetti di ricerca sulla scrittura teatrale “Crisi” per il Teatro Valle Occupato e “Playstorm” per lo Stabile di Torino. È stato presidente della giuria del Premio Riccione per il teatro nelle ultime tre sue edizioni. Traduce teatro dal Francese e dall’Inglese. È Dramaturg presso il Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale.