Mezz’ore d’autore – le interviste
Pascal Rambert
Il progetto Mezz’ore d’autore si propone come scintilla per innescare una riflessione sulla drammaturgia contemporanea. La messa in scena dei testi selezionati è accompagnata da approfondimenti, interviste, dibattiti aperti al pubblico incentrati sulle inquietudini della scrittura per il teatro, sulle possibilità offerte dal panorama politico e culturale di vari paesi nel mondo, sulla scelta delle tematiche da affrontare e sui linguaggi più efficaci oggi per veicolare significati attraverso un medium che è fra i più antichi della storia umana. Abbiamo formulato alcuni nuclei tematici e li abbiamo sottoposti all’attenzione di quattro autori teatrali, per condividere insieme a loro i cardini salienti delle riflessioni in atto, con l’intenzione di contribuire a disegnare una mappa della nuova drammaturgia in Europa e nel mondo.
Qual è lo stato dell’arte della nuova drammaturgia oggi? Nel paese in cui lei vive, c’è attenzione alla nuova drammaturgia? Quale politica seguono i teatri?
Credo che la drammaturgia contemporanea in Francia sia in buono stato di salute, certo può sempre andare meglio, ma partiamo da una buona situazione. Lavorando in una quarantina di paesi in tutto il mondo vedo in generale delle stagioni che non prendono molti rischi, si tende a rappresentare soprattutto i classici o spettacoli “acchiappa pubblico”. In Francia ci sono molti autori, fra drammaturghi “tradizionali” e collettivi che compongono con la tecnica dell’écriture de plateu (cioè che ottengono il testo drammaturgico a partire dal lavoro di improvvisazione degli attori) e in generale il loro lavoro riceve attenzione. Se osserviamo i tre grandi poli teatrali nazionali, rileviamo che la scrittura contemporanea è tenuta in grande considerazione grazie al lavoro dei direttori delle istituzioni: con Stanislas Norday alla guida del Théâtre National de Strasbourg, Wajdi Mouawad al Théâtre National de La Colline e Arthur Nauzyciel al Théâtre National de Bretagne di Rennes, quasi l’80% degli allestimenti nascono a partire da testi di drammaturgia contemporanea. Questa apertura è possibile non solo grazie alla politica culturale nazionale, ma anche grazie all’impegno diretto degli artisti che non fanno parte di centri istituzionali e che dedicano ascolto alle nuove scritture, come ho cercato di fare anch’io quando ho diretto il Théâtre de Gennevilliers.
Che ruolo può giocare la nuova drammaturgia nel ridare centralità al Teatro all’interno del dibattito pubblico?
Teatro può molto, è una voce che sa essere estremamente forte.
Ma abbiamo visto, anche in Francia, che se da parte del potere politico non ci sono la conoscenza e l’amore per l’arte, la letteratura e la cultura in generale…è molto dura riuscire a ottenere qualcosa di coerente. Certo, se si considera che ci sono ancora moltissimi paesi dove non esiste neanche un Ministero alla Cultura, dove non ci sono tutele, aiuti, sovvenzioni, si può dire che in Francia non va male. Qui c’è ancora una rete nazionale molto forte ed estesa, dopo aver realizzato uno spettacolo è possibile costruirci una tournée di due, a volte tre anni. Lavorando molto in tutto mondo vedo però che in altri paesi non è così facile, anche se nella risposta del pubblico ho notato sempre un fervore, una bella presenza. Covid a parte per me la vera preoccupazione è l’età degli spettatori, che invecchiano sempre più. C’è una rottura generazionale che noto in tutto il mondo, forse a eccezione della Cina e Taiwan dove il teatro europeo è visto ancora come una novità. Se gli Stati non fanno niente per sostenere la formazione teatrale, per insinuarla in un imprescindibile percorso di crescita culturale e civile a partire dalle scuole, il processo di invecchiamento del pubblico sarà irreversibile.
Ha dei modelli drammaturgici di riferimento?
Ho cominciato molto giovane a scrivere e non sapevo niente del teatro, la mia famiglia non veniva dal milieu dell’arte. A 13, 14 anni scrivevo poesie che si sono presto trasformate in fogli che regalavo ai miei amici del liceo proponendo loro di leggerle. Quegli embrioni si sono evoluti poco a poco in vere e proprie pièces, ma la verità è che non sapevo nulla… ero “un selvaggio”. Poi ho cominciato ad andare a molto a teatro, a vedere le creazioni di Pina Bausch e Claude Régy e mi sono formato un gusto, creato un orizzonte di riferimento. Più tardi alla fine degli anni ‘80 primi ’90 quando ormai sapevo molte più cose ed ero già stato invitato al Festival d’Avignon, ho letto Thomas Bernhard e sono stato folgorato, ma ho capito che non potevo sopravvivere alla sua lingua, era troppo forte. Tuttora non riesco a leggerlo, la mia lingua forgiata nell’arco di quarant’anni ne sarebbe divorata. Credo in ogni caso che sia stato molto importante per molti autori della mia generazione. Bernhardt mi ha liberato, insieme al primo Peter Handke. Prima quasi mi vergognavo di fare pièce lunghe, lunghi monologhi…Poi ho letto Bernhardt e Handke e mi sono detto “Pascal, anche tu puoi”. Mi hanno liberato dai “modelli” presenti sulle scene, normalmente fatti con personaggi, intrecci, situazioni. Presto ho capito che il teatro che io facevo, e che ha comunque trovato un suo pubblico nel mondo, era un cammino d’emancipazione; e l’emancipazione dagli idoli è ciò che raccomando sempre ai giovani attori e autori.
Come costruisce i suoi testi teatrali?
Direi che non li costruisco affatto, odio fare piani precisi e prendere appunti. Il mio lavoro non è “coscientizzato”, non è nell’ordine del “voglio”. Indubbiamente scrivo tutti i giorni: organizzo la mia giornata in modo da svegliarmi presto, faccio yoga e poi scrivo, programmo le prove al pomeriggio per non più di cinque ore e quando rientro continuo a scrivere. E il mio lavoro è soprattutto non volere niente, lasciare venire le cose. Al risveglio cerco di non farmi paralizzare dalle notizie del giorno, dalle mail a cui rispondere…quando dirigevo il Théâtre de Gennevilliers ogni giorno spendevo moltissimo tempo a rispondere a domande, a richieste, a risolvere problemi, tutti i giorni c’era una catastrofe… adesso sono indipendente quindi ogni giorno mi metto a disposizione di ciò che può succedere, senza fare piani e lasciando venire la parola. E siccome scrivo per delle persone precise, sia Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, gli attori cinesi, messicani, portoghesi di Tiago Rodrigues… è sufficiente che mi metta in ascolto rispetto al loro corpo, alla tessitura della loro voce.
Quando compone un testo, predilige ritagliarlo su uno o più interpreti specifici oppure crea i personaggi al di là degli attori che li interpreteranno?
Non ho testi abbandonati nel cassetto, scrivo sempre per attori precisi. Credo di aver scritto 60 testi, avrò fatto duecento spettacoli nella vita, pièces di danza, nuove produzioni, lingue straniere etc…ma nessuna di queste è stata creata senza sapere chi l’avrebbe interpretata. Anche quando a 16 anni scrivevo per i miei amici che hanno costituito con me la mia prima compagnia, facevo la stessa cosa che faccio adesso, scrivevo per qualcuno. Una volta non me ne rendevo conto ma adesso è molto chiaro. Scrivo per attori, che siano famosi, o dei perfetti sconosciuti. Non è questione di essere affermati o no, io lavoro con gente che mi interessa e a partire da lì lavoro. Quando ho fatto in Italia Cloture de l’amour con Luca Lazzareschi e Anna della Rosa non mi sono interessato se fossero conosciuti, se avessero fatto cinema o altro…ho fatto provini a 30/40 attori e ho scelto loro e con Anna poi ho fatto prima Prova e adesso Sorelle, sono molto fedele agli attori, sono i loro corpi e le loro voci che mi aiutano, se no non saprei cosa scrivere, non avrei immaginazione e idee.
La contaminazione tra vari linguaggi, drammaturgia, scrittura cinematografica, televisiva etc…, depaupera il puro teatrale o aumenta il ventaglio delle possibilità?
L’ argomento è molto interessante e complesso. Io non ho la tv, non ho molto tempo e non guardo le serie, sento dire che molte produzioni sono davvero ben fatte, con ottimi dialoghi, i plot ben orchestrati…a me però piace l’idea di appartenere a un mondo “antico”, il teatro ha più di 2000 anni e io ho fiducia in ciò, se il Teatro non è finito ci sarà una ragione. Non si tratta solo di rappresentazione, è il legame che c’è fra gli uomini e le storie realizzate con corpi vivi. Durante la Pandemia ho scritto e realizzato Tre annunciazioni, l’abbiamo provato, finito ma, avendo paura di non riuscire a debuttare, ne abbiamo fatto un film (lo spettacolo ha poi debuttato ed è andato in tournée). Inevitabilmente ci siamo affidati a questo mezzo per conservare la memoria, molti teatri hanno trasmesso spettacoli su youtube.
Se la pandemia fosse successa nel 1972 quando non c’era il web, qualche grande regista, non so Strehler, avrebbe trasformato il suo spettacolo in un grande film, ma ormai spero sia questione di qualche mese, non appena i teatri saranno aperti nessuno avrà voglia di vedere il teatro in video, speriamo da settembre di poter tornare a una vita normale senza zoom, senza distanza, potendoci toccare.
Di cosa si potrà parlare quando le sale dei teatri riapriranno?
Vedo molti intellettuali turbati dall’idea di un mondo prima e un mondo dopo la pandemia, io non sono di questo avviso, non lo dico ironicamente, tutte le persone con cui parlo non vedono l’ora di poter essere liberi di andate a teatro, al cinema, al ristorante, a bere un bicchiere… Da un anno molti autori hanno cominciato a scrivere diari del lockdown, molti artisti hanno realizzato spettacoli e film sulla solitudine del “confinement”, io mi sono tenuto lontano da ciò, ma posso dire che le 5 pièce che ho scritto da luglio sono state trasformate nei loro soggetti, sono state condizionate da un impulso che è scaturito dal loro interno e che fan i conti con l’impossibilità di toccarsi, con l’impossibilità di avere rapporti fluidi. L’impossibilità di condurre la mia solita vita fluida, che mi porta un girono a New York e l’altro a Pechino è arrivata concretamente nella mia scrittura, una forma di rottura fra gli esseri. E anche la morte è entrata più profondamente delle pièce, è più presente.