LA LOCANDIERA
di Carlo Goldoni
con
Emanuele Vezzoli
Massimiliano Sbarsi
Nanni Tormen
Paola De Crescenzo
Laura Cleri/Mariagrazia Pompei
Cristina Cattellani
Luca Nucera
Massimiliano Sozzi
Luca Giombi
costumi e spazio scenico Gianluca Falaschi
luci Claudio Coloretti
regia Walter Le Moli
produzione Fondazione Teatro Due
SPAZIO GRANDE
9 novembre 2019 ore 20:30
10 novembre 2019 ore 16:00
Sul finire del 1752, quasi al termine della collaborazione con il veneziano Teatro Sant’Angelo e con la compagnia del capocomico Girolamo Medebach, Carlo Goldoni compone il suo testo più celebre, una commedia in cui il denaro è il leitmotiv che anima l’intera vicenda, l’ossessione e il tormento dei caratteri rappresentati.
Siamo a Firenze (forse per non insospettire il pubblico e la censura della Serenissima), in una locanda, la cui proprietaria, Mirandolina, riceve continue profferte amorose da parte di due aristocratici avventori, il Marchese di Forlipopoli e il Conte d’Albafiorita; incurante delle smanie dei clienti, Mirandolina concentra tutte le sue attenzioni sul misogino Cavaliere di Ripafratta, decisa a farlo capitolare, indispettendo così Fabrizio, cameriere della locanda, invaghito, a sua volta, della proprietaria. A complicare e insaporire la vicenda contribuisce l’arrivo di due commedianti, Ortensia e Dejanira, che, fingendosi dame, cercano di truffare i blasonati ospiti della locanda.
Sfrondata delle trine e dei vezzi, la vicenda raccontata da Goldoni ci offre un quadro della società a lui contemporanea assai animato da tensioni e rivendicazioni, in cui la decadenza della vecchia classe dirigente, ormai ridotta a parassita inerme, si scontra con il dinamismo di quel ceto borghese che di lì a qualche anno avrebbe squassato l’ordine costituito e dato nuovo corso alla Storia.
Liberata da ogni pretesa di naturalismo, e decisamente più volta ad una sintesi dei contenuti, la messa in scena ideata da Walter Le Moli snellisce la caratterizzazione “d’epoca” del testo e lavora fino a far emergere le sfaccettature più sociali e politiche, attraverso le quali ogni aspetto della pièce (e in particolare i personaggi, Mirandolina in primis) assume una veste più universale e meno relegata al contesto storico della Venezia settecentesca. In quest’ottica Goldoni appare in tutta la sua consapevolezza di drammaturgo oltre che di uomo del suo tempo, capace di coscienza critica e di lucidità nel dipingere i rapporti tra i personaggi del suo (e del nostro) mondo. Attualissima, la pièce apre una porta sulla supremazia del denaro nel mondo moderno, e sulle conseguenze di questo potere sull’equilibrio delle classi sociali, oltre che sull’universo personale e sentimentale. In questo senso Mirandolina, camaleontica interprete delle tensioni sociali curiosamente adunate nella sua locanda, risulta un personaggio che agisce da sapiente giocatore di scacchi, capace di trarre il massimo vantaggio all’interno di una situazione a tratti spinosa, sicuramente divertente, che cambia in ogni momento.
Credevamo di sapere tutto sulla Locandiera dopo le molteplici edizioni che si sono succedute ad opera dei maggiori registi italiani, ma sbagliavamo. Perché lo spettacolo varato da Walter Le Moli ci spalanca uno studio sul momento storico che ne ha visto la comparsa finora ignorata da qualsiasi teatrante. A cominciare dalla scenografia che rappresenta un mondo chiuso alla speculazione di chi vuole cambiarlo. Tanto che l’avvicendarsi del popolo e aristocrazia sembra consumarsi nel continuo sommarsi di addendi che solo in apparenza appaiono motivati dalla sequenza del racconto. Con una strepitosa Mirandolina di irresistibile coerenza che come un Divin Marchese in gonnella ha compreso l’immutabilità dei ruoli e delle classi sociali. Un perfetto apologo di sapore brechtiano vivificato dalla spregiudicata intelligenza della regia che illumina questo capolavoro. Grazie anche alla perfezione del cast.
Enrico Groppali
La locandiera (1752) non è solo una commedia, ma anche l’acuta analisi della società veneziana còlta in un preciso frangente storico. Già dal 1748 infatti contrasti sempre più accesi si fecero strada tra le classi. Nell’aristocrazia stessa, tra patrizi di Quarantia e barnabotti. Tra la nobiltà senatoriale, ancora al governo con posizioni conservatrici ed economicamente potente, e la nascente borghesia. La bella Mirandolina non è quindi solum “donna di spirito”, ma anima stessa di questo nuovo ceto che per conservare la propria libertà si ribella al patriziato e alle sue seduzioni, adottando “l’intelligenza come strumento di affermazione sociale” (G. Davico Bonino). Goldoni adatta la lingua al contesto, celebrando la supremazia del denaro. La roba, gli oggetti-simbolo dominano gli interessi altrui: le lenzuola di rensa, le tovaglie di Fiandra, i diamanti, il fazzoletto, la boccetta d’oro, gli zecchini e i paoli, l’intingoletto, il Borgogna… appartengono ad “un linguaggio perfetto applicato alla merce e non al cuore”, citando Le Moli. Cuore che soccombe nel gioco della finzione di cui tutti conoscono le regole, ma non bene quanto Mirandolina. Il (finto) misogino Ripafratta cede alle (finte) lusinghe dell’albergatrice, in un conflitto tra razionale e irrazionale che alla fine rientra nei ranghi della convenzione gerarchica. Questo il pensiero che alberga nella Locandiera proposta da Walter Le Moli, sapientemente ripulita dai vezzi della tradizione per farne un capolavoro di indimenticabile perfezione. La scelta è quella di astrarre la vicenda da un contesto geografico d’immediata identificazione (ci pensò già l’autore spostando l’azione a Firenze per evitare censure e proteste del pubblico) per renderla universale, sebbene l’Estro armonico vivaldiano e i richiami palesi a Pietro Longhi, pittore della civiltà veneziana che oggi ci osserva appesa alle pareti di Ca’ Rezzonico, la leghino fermamente al contesto storico sopraccitato. Lo spazio scenico creato da Gianluca Falaschi punta a una funzionale semplicità. Pareti rossastre fanno da sfondo a divani, tavole e sedie mobili, mentre i personaggi praticano quinte quasi impercettibili. I costumi, anch’essi di Falaschi, dichiarano fogge settecentesche, mentre solo alla rossa Mirandolina è riservato un look glam punk – pantaloni, stivali di pelle, camicia di pizzo bianca scollatissima – che ne esalta la natura aggressiva. Le luci di Claudio Coloretti rivendicano quell’oscurità tipica del Longhi, tanto che spesso gli attori recitano in penombra, inghiottiti dal nero di un avvenire incerto o di un passato ormai remoto. La locanda stessa diventa Venezia da cui tutti partiranno, lasciando Fabrizio e Mirandolina soli a constatare l’inevitabile caduta di un sistema sociale.
Luca Benvenuti