Non si può spiegare tutto. Spesso, anzi, spiegare è troppo. Spiegare come si fa con una pagina stropicciata, per esempio, può portare allo strappo. A stirare troppo qualcosa, va a finire che lo si rovina. Che sia stoffa o carta o uno spettacolo, il concetto è lo stesso. Non lo si può stirare troppo, spiegare troppo.
E noi, dallo spiegare, ci siamo tenuti lontani. Al contrario, abbiamo cercato di capire se (e perché) la performance, in quanto evento spettacolare non narrativo e non mediato, è così diversa dallo spettacolo, e dalla concezione che tradizionalmente si ha del teatro. Ci siamo circondati di ospiti illustri, ma anche di compagni tormentati e poco convenzionali per il nostro incontro sulla co-produzione Drakula tra Parma, Maribor e Zagabria. La città del teatro, in questo Mappe, sembrava un atelier, un manicomio, un focolaio di rivoluzione. E infatti la rivoluzione, almeno quella dal punto di vista artistico, è sempre stata l’obiettivo della performance, nonché di tutte quelle forme artistiche che si sono poste come “contro”, come curvatura, come opposizione all’arte costituita e alla direzione in cui si dirigeva (e si dirige) il sistema. Schiele, Nitsch, Hirst sono solo alcuni dei componenti di una “camera degli orrori” che ha funzionato da preludio, e non da bugiardino, a Drakula. Perché Drakula è sì uno spettacolo, è sì un ragionamento su Bram Stoker e sul vampirismo, ma è anche e soprattutto una performance di grande impatto, di un impatto troppo difficile da rinchiudere, includere e concludere nella fonte stokeriana. L’accesa volgarità di alcune scene, la materia di cui i corpi sono fatti, la coreuticità travolgente forse nascondono altro, e noi ci siamo chiesti cosa. Come se lo saranno probabilmente chiesti i visitatori delle mostre di “body art”, che vedevano artisti che si facevano sparare a un braccio, o che inserivano verdure in più di qualche orifizio del loro corpo. Se si resiste (si legga: se si ha la voglia di resistere) al primo riflesso di rifiuto, si pensa subito alla gratuità della provocazione. Ma i nostri vampiri hanno in mente ben altro: provocare sì, ma come? Forse chiamando “vampiro” o “pestilenza” le grandi azioni bancarie e la globalizzazione? Forse disegnando col corpo le perversioni che preferiamo mantenere ben chiuse negli schermi dei nostri computer? Forse usando sangue finto per mostrare in forma satirica (e proprio satiri sembrano alcuni attori mentre si contorcono) il sangue che bagna la terra del Medio Oriente e che dà origine alle migrazioni verso Mamma Europa?
Ecco, abbiamo capito un’altra cosa della performance: che la si guarda, e il più delle volte si esce avendo in testa meno risposte e più domande di quando si era entrati. E spesso ci si sente anche un po’ turbati, toccati, anche abusati da quello che si è visto. In definitiva: non è una cosa fatta per essere piacevolmente sorseggiata. E’ più una secchiata d’acqua gelata a sangue freddo.
Però quelle domande, quelle docce fredde, quel distacco alieno con cui la sessualità viene schiaffeggiata in scena, sono l’anima stessa di una pratica che non segue la drammaturgia, non cerca di aver senso, non prova ad essere ciò che non è. E’ più una discesa all’inferno, un ingresso nell’oscurità inconscia della mente del pubblico. Siamo disposti?
Francesco Bianchi