Se Flaubert amava definirsi penna umana, la cronista e saggista bielorussa Svetlana Aleksievič potrebbe essere definita un’orecchio, teso ad ascoltare i discorsi della gente, le loro voci, le loro emozioni. E proprio un coro di voci caratterizza i suoi dieci libri, a tal punto da farne quasi un unico volume: la storia di un’utopia e lo smarrimento profondo dell’uomo rosso dopo il crollo del suo grande ideale, il comunismo.
Classe 1948, nata in Ucraina e cresciuta in Bielorussia, si laurea in giornalismo e pochi anni dopo assume la responsabilità della sezione di saggistica di un’importante rivista letteraria. Proprio in questi anni sviluppa i fondamenti del suo personale lavoro creativo, imboccando la strada del romanzo documentario e inserendosi così nell’alveo scavato da Ales’ Adamovič, importante scrittore bielorusso che aveva importato questo genere all’interno della letteratura del suo paese. La scrittura di Aleksievič si distingue però per la maggiore elaborazione autoriale dei racconti dei testimoni che fa si che il reportage si trasformi in un romanzo di voci, “un’opera polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo.”[1]
Testimone silenziosa e attenta, in uno degli apici della sua carriera letteraria, Tempo di seconda mano, Aleksievič viaggia tra le macerie immateriali ma disperatamente autentiche di un Paese senza identità. Un senso di smarrimento che non appartiene solo al popolo russo, ma ci riguarda tutti, offrendo il riflesso più generale dello spiazzamento esistenziale dell’uomo dinanzi alla Storia, dinanzi alla rimozione sistematica del passato, sostituito da un presente senza futuro, irriconoscibile, distopico.
Svetlana Aleksievič ha raccontato spesso di aver iniziato a fare esperienza della vita reale dai racconti delle donne del villaggio di campagna dove stava in compagnia della nonna materna. Racconti di dolori, perdite e lutti narrati da un continuum di voci femminili, madri e mogli che abitavano in villaggi, uno uguale all’altro, deserti di uomini.
Quando, nel 2015, ha ritirato il premio Nobel per la letteratura ha aperto il suo discorso così: “La voce umana è il mio più grande amore, la mia passione”.