Condividiamo la recensione di The Beggar’s Opera a cura di Clizia Riva pubblicata su Concretamente Sassuolo
Che cos’è “The Beggar’s Opera”? “The Beggar’s Opera” è prima di tutto, una “ballad opera”, ossia il genere teatrale britannico in cui la prosa è inframmezzata da brevi o più lunghe arie cantate. Il tutto sembrerebbe relegato a un universo etereo e arcadico, se – e qui entra la genialità del contrasto creato da John Gay, la cui opera debutta nel 1728– i protagonisti di questo filone teatrale non fossero soprattutto criminali. Criminali: prostitute che danno piacere per svuotare tasche, uomini dalle mani leggere in cerca di piccoli e grandi furti, bande organizzate e capi profondamente compiaciuti della propria condotta di vita e dalla voluttà scaturita dal lusso illecito.
Compiaciuti: si elimina il patetismo dickensiano e si popola il palco con personaggi continuamente al limite fra l’estremo rappresentato e la coscienza dell’interprete.
Gli attori sono consci di recitare: entrano ed escono volutamente dal loro ruolo e dalla loro scena con quella vena straniante che sarà peculiare della drammaturgia di Brecht, che proprio da The Beggar’s Opera trarrà la sua “Opera da tre soldi”.
Straniamento: lo straniamento è, dunque, prima di tutto dei valori. Tutta l’architettura di “The Beggar’s Opera” si fonda su tre fuochi: l’universo delinquenziale tessuto dal capo-banda Peachum, il secondino corrotto Lockit e il capitano MacHeath, odiato profondamente dai due criminali ma amato intensamente dalle loro figlie, le giovani Polly e Lucy. Intorno a loro, un coro: ubriachi, donne di malaffare, corrotti, lussuriosi amanti e ladri seguono e intervengono all’interno del triangolo di amore e morte che si dipana davanti a noi.
Un coro che canta, che decide di comunicarci i “bassi” (o solo crudamente e crudelmente realistici?) valori attraverso la musica, usuale prerogativa di alti eroi e nobili sentimenti: il rovesciamento di Gay e delle note di Pepusch ci fa capire che non solo stiamo assistendo a una vivace storia, ma abbiamo anche la possibilità di una seconda e più dissacrante lettura, accusatoria nei confronti di quel fintamente colto teatro lirico vuoto che abbraccia prima di tutto i potenti, qui profondamente e volutamente ridicolizzati.
Una compiaciuta ironia che non dà affatto fastidio: con una seria leggerezza, “The Beggar’s Opera” si propone quasi come un non-luogo, uno spazio aperto e libero, in cui sfogare i toni eccessivi e i non-valori della nostra società, che tanto non è cambiata dal 1728.
A rendere tutto questo possibile, ci ha pensato il Teatro Due, con i suoi magnifici e giovanissimi interpreti, allievi del Corso di Alta Formazione Casa degli Artisti, i quali, dopo essersi misurati con la classicità dell’Alcesti di Euripide sotto la guida di Elisabetta Pozzi, portano in scena il capolavoro di Gay e Pepusch (il cui libretto è stato tradotto e riscritto da Francesco Bianchi, Carlo Galiero, Dino Lopardo e Michele Mazzone, autori-attori presenti anche in scena), grazie alla direzione di Bruno De Franceschi (che ne cura anche la musica) e Caterina Vianello. La forza di questi magnifici interpreti può essere riassunta in due semplici concetti: profonda tecnica e grande potenza scaturita dall’unità. In un gioco di scene, situazioni parallele e mutamenti assolutamente fluidi, gli attori ci regalano quadri di amore, gogne e prigione con vivissima, graffiante ironia e seria satira: la scenografia è creata da corpi e da poltrone mobili, il contesto è dato dal perfetto bilanciamento fra l’ironia dell’interprete e la sua perfetta consonanza con il personaggio. Ma, più di tutti, è il gruppo a emergere nella sua potenza: ogni individuo sa entrare in un coro (eccellente anche a livello canoro) che ne esalta la situazione e l’interprete.
Il risultato è frizzante: è pop, è politicamente scorretto, è potentemente profondo.
Un esito di un percorso fruttifero, che ci auguriamo di potere rivedere in scena al più presto, perché – qualsiasi livello decidiamo di preferire– ne vale davvero la pena.
Clizia Riva