Era la fine degli anni settanta. Io avevo dodici-tredici anni e vivevo a Latina. I miei si erano separati da poco, e una settimana sì e una no trascorrevo un week-end con mio padre a Roma. Andavamo a vedere una mostra, facevamo shopping, e la sera andavamo a teatro. Fu in una sera di quelle, che girando per non so che quartiere – la mia conoscenza di Roma era molto nebulosa, allora – mio padre, che faceva l’avvocato penalista e evidentemente aveva avuto qualche soffiata, mi disse:
“Sai, qui dietro c’è una caserma che chiamano Mokambo, dove la polizia tortura i brigatisti”.
Non so se il nome sia un arbitrio della memoria – proprio di quelli che Pinter ha scandagliato in Vecchi Tempi o in Terra di Nessuno. E certo la sua esotica incongruità non stonerebbe in uno sketch del nostro autore.
Racconto questo episodio, a rischio di un personalismo che generalmente mi mette a disagio, perché ha rappresentato per me la prima scioccante esperienza di come il più indicibile degli orrori possa convivere con lo scorrere dei riti e delle abitudini di una nazione civile. La percezione che ci possa essere un “rimosso” fatto di dolore e sangue, di ferinità e sadismo che , celato solo da quattro muri, accompagni, come un sinistro basso continuo, lo svolgersi delle nostre ordinate esistenze di cittadini di una democrazia occidentale.
Quella sensazione mi torna in mente alla vigilia dell’inizio delle prove di questi tre agghiaccianti atti unici in cui Pinter ci fa entrare nei “luoghi chiusi dell’oppressione”: camere della tortura, carceri segrete, algide sale colloquio.
E la sensazione di allora si porta con sé alcuni interrogativi.
Come è possibile che i principi dello stato di diritto possano, in alcuni momenti della nostra storia, diventare una impiallacciatura sotto cui si nasconde un marciume così ripugnante? Qual è la tenuta dei nostri principi democratici? Che cosa può attivare quella zona crepuscolare della coscienza in cui, da cittadini, si sa e non si sa, si sospetta l’orrore ma lo si rimuove e lo si metabolizza?
Di più: che cosa può trasformare un normale essere umano in un torturatore? Eh, sì, perché non possiamo illuderci che i torturatori siano dei mostri. Sarebbe troppo facile e soprattutto ci farebbe cadere nel loro stesso autoinganno: quello di pensare che il male sia altrove, fuori di noi, sia facilmente identificabile, e si debba combattere ad ogni costo.
Nel Bicchiere della staffa Pinter è, inutile dirlo, perfettamente consapevole dei problemi etici, ma anche drammaturgici ed estetici che comporta la scelta di mettere in scena un torturatore e le sue vittime:
‘E’ difficile scrivere di qualcosa di cui già si conosce la risposta. Se sai che una dittatura brutale è una cosa negativa, che fai? Ti limiti a dire: “una dittatura brutale è una cosa negativa?” Io credo che quello che alla fine sono riuscito a fare con Il bicchiere della staffa è esaminare la psicologia di un uomo che è un inquisitore, un torturatore, il capo di un’organizzazione, ma anche un uomo di fede convinto e appassionato; in altre parole uno che crede in una serie di cose ed è disposto a combattere per le sue idee… che è capace di sottoporre le sue vittime a qualsiasi orrore e umiliazione in nome di quella che gli appare come una giusta causa. Io credo che questo rifletta… situazioni presenti in tutto il mondo, sotto questo o quell’ombrello, adesso, come allora, o in qualsiasi epoca. La questione della giusta causa.’
Come regista sento che è essenziale affrontare Nicolas, gli aguzzini de Il linguaggio della montagna, Des e Lionel nel Nuovo ordine mondiale non come meri villains, ma come esseri umani.
Come esempi della condizione in cui chiunque di noi può precipitare in circostanze estreme e in nome della “giusta causa”. Come paradigmi degli effetti che un cocktail micidiale fatto di principio di autorità, paura, bisogno di appartenenza, istinto di morte, possono produrre sulle coscienze.
All’epoca dell’esperimento del “Teatro della Crudeltà” Charles Marowitz, allora braccio destro di Peter Brook, redasse una specie di tabella sinottica in cui venivano giustapposte le attitudini – o se vogliamo il gergo – degli Attori Tradizionali e degli Attori Moderni ( che so: “intonazioni fisse” vs. “recita il senso e le intonazioni verranno da sé” oppure “più emozione” vs. “più chiarezza nelle intenzioni così da produrre più emozione”). A proposito del rapporto con il proprio personaggio Marowitz contrapponeva: “io sono il cattivo” a “mi rifiuto di esprimere giudizi morali sul mio personaggio”. Di fronte ai torturatori di Pinter me lo continuo a ripetere.
C’è una toccante linea di resistenza dell’umano in questi testi. Pinter, che in tante sue commedie ha raccontato la labilità degli affetti più intimi, mostrato quali devastanti e perversi giochi di ruolo possano scatenarsi nel nucleo familiare, quale livello di crudeltà possano toccare i rapporti parentali, nel Linguaggio della montagna ci consegna forse la più bella scena d’amore fra una madre e un figlio e fra un uomo e una donna di tutta la sua opera. I due uomini sono detenuti politici.
Voce della donna anziana: Il piccolo ti aspetta.
Voce del prigioniero: La tua mano è stata morsa.
Voce della donna anziana: Ti stanno aspettando tutti.
Voce del prigioniero: Hanno morso la mano di mia madre.
Voce della donna anziana: Quando tornerai a casa ci saranno dei grandi festeggiamenti. Ti stanno aspettando tutti. Tutti ti aspettano. Non vedono l’ora di vederti.
E poi:
Voce dell’uomo: Ti osservo mentre dormi. Poi apri gli occhi. Alzi lo sguardo, mi vedi sopra di te e sorridi.
Voce della giovane donna: Tu sorridi. Quando apro gli occhi, ti vedo sopra di me e sorrido.
Voce dell’uomo: Siamo fuori, vicino a un lago.
Voce della giovane donna: E’ primavera…
Voce dell’uomo: Ti stringo. Ti scaldo.
Voce della giovane donna: Quando apro gli occhi, ti vedo sopra di me e sorrido.
In mezzo all’orrore, gli affetti resistono e si distillano, raggiungono una purezza assoluta che non conosce narcisismo.
Certo, a ben vedere si tratta di pensieri: i personaggi dialogano nelle loro menti.
È possibile solo lì la pienezza della proprie emozioni?
Ho già diretto Catastrofe di Beckett per un saggio dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e nel corso delle prove ho avuto un’esperienza singolare, che proverò a raccontare.
In questo fulminante atto unico, Beckett mette in scena un regista e la sua assistente che provano il momento finale di un qualche dramma. L’attore protagonista è muto, sofferente, immobile. Senza reagire si sottopone alla manipolazione del regista e dell’assistente che cercano la perfetta postura in cui fissarlo per l’immagine finale dello spettacolo. Il regista e l’assistente sembrano mossi non solo da narcisismo, ma anche da una autentica per quanto spietata urgenza estetica. C’è un momento in cui devono decidere la posizione delle mani: è una questione di centimetri e il regista si accanisce a trovare la perfetta misura. Mentre provavo questo momento – e, casualmente, avevo un’assistente donna – mi sono accorto che stavamo facendo esattamente la stessa cosa con il nostro attore, che era lì immobile, da ore, mentre noi ci ostinavamo a spostargli il braccio di pochi centimetri alla ricerca dell’immagine perfetta. “Più in alto…un pochino di più… ferma!”: stavo pronunciando letteralmente le stesse parole del personaggio. E ho fortemente sospettato che Beckett avesse previsto tutto questo.