Ivanov è un successo. Lo dice la critica ma, soprattutto, lo dicono gli spettatori, con le parole e con le espressioni disegnate sul volto quando escono dalla sala. Dopo una tournée che l’ha consacrato come uno degli spettacoli migliori dell’anno, Ivanov (prodotto da Fondazione Teatro Due e Teatro Stabile di Genova e con la regia di Filippo Dini e con un cast brillante composto dallo stesso Filippo Dini e Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe ) torna sul palco di Teatro Due, dal 20 al 22 novembre.
Qui vi presentiamo una gallery fotografica intensa e originale, a cura di Laila Pozzo, ideatrice del sito Breakleg, tutto dedicato al teatro da un punto di vista nuovo: le immagini vengono scattate dietro le quinte, in quella sottile terra di confine dove attore e personaggio si fondono. Ad accompagnare le foto, una recensione scritta da Roberta Romussi, professoressa di Milano che ha portato la sua classe di studenti a vedere Ivanov, speranzosa ma anche un po’ preoccupata. Il risultato? Eccolo:
Quando ho proposto alla mia classe (III liceo, anni 16) di andare a teatro a vedere un Cechov di 3 ore, in molti hanno alzato gli occhi al cielo. A nulla sono valse le mie rassicurazioni: è uno spettacolo pieno di ritmo, un testo ricchissimo… soltanto uno sparuto drappello di fedelissimi, di quelli che vedrebbero qualunque cosa pur di venire a teatro (esistono, pure fra gli adolescenti) mi ha seguito impavido. E quindi siamo andati: teatro Franco Parenti, Ivanov di Cechov, regia di Filippo Dini. Confesso che ero un po’ spaventata per loro: tre ore, fine ‘800, Russia (ce la faranno coi nomi? E le verste?), un protagonista anti-eroe in un’età in cui piacciono solo gli eroi, meglio se super. E se sbagli con un adolescente, rischi di disamorarlo al teatro per sempre. Eppure.
Tutte le volte che guardo uno spettacolo insieme ai miei studenti, non posso fare a meno di guardarlo coi loro occhi ed è così che ho guardato e vi racconto Ivanov. Innanzi tutto un grande spettacolo: scene costumi attori, parole gesti espressioni movimenti oggetti; ricchezza, cura dei dettagli, luci, vivacità, ritmo. Non è secondario: i ragazzi, abituati al cinema americano, trovano “lento” praticamente tutto; per loro, immersi continuamente in immagini digitali preconfezionate, andare a teatro è innanzi tutto vedere delle immagini, e scene costumi luci bravura degli attori sono decisivi.
Nel caso di Ivanov il lavoro di Laura Benzi (scene e costumi) e Pasquale Mari (luci) crea la suggestione di uno spazio perfettamente autonomo, senza però far dimenticare che è uno spazio vero, concreto, “da toccare”, lo stesso in cui siamo immersi noi, come suggerisce il fatto che, entrati in sala, troviamo Ivanov già in scena, curvo su un libro che evidentemente lo annoia, ma talmente preso da sé stesso da non notarci neanche, e le luci in sala restano accese per buona parte del primo atto. Insomma, il teatro batte il cinema, dai, lo si vede: basterebbero i lampadari che calano dall’alto con un piccolo saltino o la betulla bianca, o il cambio scena con gli attori che spostano e sistemano le cose, per commuovere anche il più incallito fruitore di immagini virtuali.
Le scene e le luci chiariscono la posizione esistenziale dei protagonisti (lo spazio della casa di Ivanov e di sua moglie Anna Petrovna è angusto anche quando è un giardino, pieno di spigoli e con pareti che si stringono, perché Ivanov si sente in prigione e Anna, malata di tisi, non può uscire) e sottolineano i rapporti fra i personaggi: sulla scena gli attori si muovono disegnando traiettorie che quando si incontrano cozzano per farli rimbalzare lontano, in una sorta di partita di biliardo che lo spazio improvvisamente vuoto e metafisico dell’ultimo atto rende ancora più decisiva. Soltanto in una scena Ivanov e Anna si toccano e stringono lungamente, sulla stessa mattonella nell’ultimo abbraccio, in un lento suggello della storia d’amore che, a mio parere, è questo dramma di Cechov.
E poi ci sono gli attori, tanti, colorati e in bianco e nero, che si muovono con un’energia impetuosa e una precisione millimetrica, attori trasformisti, che interpretano diverse parti e lo vedi proprio, che basta un cappello per essere un altro. Attori che dei loro personaggi -un’umanità “vista da fuori” gretta e meschina, annoiata e inutile, quando non truffatrice e avida- fanno degli uomini complessi, sfaccettati, anche solo per un tono di voce, una battuta. Infatti ci troviamo di fronte a un’umanità spesso comica o grottesca, ma pur sempre un’umanità tridimensionale, con le sue ferite e i suoi slanci: anche il personaggio più cinico e scanzonato -Borkin = Fulvio Pepe-, più avido e gretto -la Savisna = Orietta Notari-, più burbero e patetico -il Conte Sabel’skij= Nicola Pannelli-, più fatuo e interessato -la Babakina = Ilaria Falini-, più rigido e moralista – il Dottore L’vov = Ivan Zerbinati rivelano in un silenzio, in un’uscita precipitosa di scena, nel lancio di una parrucca o nella voce che si rompe sulla parola “porcheria”, di essere degli uomini interi.
Il padre ubriacone e sottomesso alla moglie –Lebedev, Gianluca Gobbi- fa morir dal ridere, ma è di una tenerezza piena di cuore con la figlia – Sasa, Valeria Angelozzi-, che ha tutto l’impeto e il furore di una Giulietta, con in più la consapevolezza amara che Ivanov non è Romeo. Sara Bertelà, poi, avrebbe potuto fare di Anna Petrovna un’eroina da tragedia o da melodramma, mentre vediamo una donna vera, profonda e saggia, piena di amore per la vita e per il suo Ivanov, che lei conosce intimamente, ma che ora dice di non amarla più.
Nel III Atto lo affronta, rinfacciandogli il tradimento (Didone) e la propria dedizione (Medea), ma, quando lui, cattivissimo, le urla che il medico ha rivelato che è ormai prossima alla morte, chiede soltanto, con dolcezza, sgomento e vera necessità: “Quando l’ha detto?” ed è una donna nel tempo, nella vita. L’Ivanov di Filippo Dini è sì un inetto, tormentato tormentator di sé stesso, annoiato, al tempo stesso puerile e vecchio, ma di tutto ha acuta consapevolezza e quasi regia (e Dini, in effetti, è anche il regista): alla fine, quando il frastuono che egli sente nella sua testa si fa talmente forte da superare la voce degli altri personaggi, ci chiediamo se tutto quello cui abbiamo assistito non si stato altro che il teatro di Ivanov, quello che lui ha allestito nel suo cervello.
Infine, le parole, le parole precise, liricamente esatte di un Cechov giovanissimo e perfetto, nella traduzione magistrale di Danilo Macrì, che, lasciatemi fare la Prof. di latino e greco, è riuscito a rispondere a tre esigenze che si parano sempre davanti al traduttore di lingue lontane nel tempo e nello spazio: far sentire la bellezza di questa lontananza, mantenere la poesia e rendere tutto dicibile sotto questo cielo di what’sapp.
Un grande spettacolo, insomma.
E quando mi volto a guardare gli studenti, vedo i loro occhi lucenti. Missione compiuta.